pezzo apparso per la prima volta nel numero di giugno 2013 della rivista XL.
Semplificando brutalmente, la filosofia
occidentale scinde forma e contenuto contrapponendoli in una
dicotomia conflittuale. Quella orientale e giapponese, in particolar
modo, ci dice invece che la forma E' contenuto, che il vuoto è
pieno, che il segno è significato oltre che significante.
Ecco, a seconda dalla parte del mondo
da cui si guarda Alessandro Baronciani, il suo lavoro assume una
valenza diversa. Insopportabilmente vacuo, stilisticamente congelato,
privo di forza e intensità, per un lettore abituato alla “ciccia”
del fumetto occidentale, rarefatto, evocativo, elegante, per chi
frequenta contesti meno provinciali. Stabilire quali delle due
visioni sia la più corretta non è semplice e la nuova raccolta distorie edite dalla Bao non aiuta in tal senso. Perché la forma del
libro è talmente tanto azzeccata e incisiva da definirne i suoi
contenuti e dargli un senso compiuto. Forse, con un'edizione diversa,
questa antologia di storie realizzate tra il 1992 e il 2012, sarebbe
risultata disomogenea, vuota e priva di senso, ma questo libro ha la
forma che ha, non un'altra.
E in base a quella forma va valutato.
Perché non si può separare l'opera di Baronciani dall'aspetto,
visivo, fisico e tattile che assume. Il suo stile è la sua sostanza.
La sua forma è la sua narrazione.
Dimensioni, grammatura della copertina
e della carta degli interni, tagli della pagina, grandezza del segno
a china, equilibrio tra bianchi e neri, distribuzione delle vignette.
Si comincia a leggere un libro di Baronciani quando lo si guarda sul
bancone e si prosegue quando lo si prende in mano, lo si sfoglia e lo
si odora. Leggerlo è solo la fine del viaggio, non l'inizio.
E così, come per Le ragazze dello
studio di Munari, quando chiudo
Raccolta 1992-2012 dimentico
immediatamente di cosa parla ma ricordo in maniera limpida le
sensazioni che mi ha dato.
Sono tutte
piacevoli. E non è poco.